Nella regione storica della Slesia, tra le anonime località di Jawor e Strzegom, in un territorio collinare che guarda da lontano le alture del Karkonosze (Monti dei Giganti), nel mezzo di una Polonia sospesa tra il suo passato, il passato che non le appartiene e quello irrisolto del presente, raggiungiamo il villaggio di Rogoznica (Gross Rosen in tedesco). Da qui, proseguiamo lungo la Ofiar Gross Rosen cercando l’indicazione dell’omonimo sito storico…

Il memoriale si affaccia direttamente sulla strada ed è segnalato da uno scarno monumento in granito reso esplicito dalla scritta Gross Rosen accompagnata da una scultorea corona di filo spinato. Siamo alle porte dell’ex Konzentrationslager Groß-Rosen (Campo di Concentramento di Gross Rosen) e siamo anche sull’orlo di uno degli abissi della storia da dove non potremo far altro che calare lo sguardo per guardare in fondo…
Gross Rosen è stato un campo di concentramento e di lavoro o Arbeitslager. Fu attivato dai nazisti nel 1940 e rimase in funzione sino al gennaio del 1945. A quel tempo, il villaggio di Gross Rosen era tedesco così come buona parte della regione storica della Slesia che diventò polacca a seguito della disfatta del Terzo Reich e di quanto deciso durante la Conferenza di Potsdam. Se tutto andava bene, nel campo di Gross Rosen si poteva sperare di sopravvivere. Se il vagone del treno avesse proseguito oltre raggiungendo la vicina Oświęcim (in tedesco: Auschwitz), invece, le cose sarebbero state molto più complicate e comunque nefaste.
Il parcheggio è dentro l’area del campo. Scendiamo dall’auto e raggiungiamo un piccolo chiosco dove una anziana signora raccoglie la modesta cifra di trenta centesimi per il posteggio. C’è solamente un’altra automobile parcheggiata. Siamo comunque a metà agosto e fa un caldo maledetto e il percorso a piedi è lungo e non riparato. Gli altri visitatori li incontriamo poco più avanti: sono una coppia come noi e lui inizia da subito a sudare molto come accade inevitabilmente anche a me. Come noi si muovono mesti e silenziosi. Loro, tuttavia, sono ebrei, lui porta la kippah, e il loro sguardo assente ha un altro significato. Noi siamo più giovani e prima di risalire in auto, affronteremo anche il percorso che conduce alla cava, loro, invece, dovranno rinunciare e sedersi lungamente all’ombra per riprendersi.
All’inizio, Gross Rosen e i suoi numerosi sotto campi o campi satelliti, avevano lo scopo di introdurre il lavoro forzato nell’attività estrattiva già presente nell’area di Strzegom che ancora oggi è la principale fonte di reddito e rinomanza del territorio. Il terreno, infatti, offre una delle pietre di granito più pregiate d’Europa, il granito Strzegom che i tedeschi volevano impiegare per realizzare monumentali opere nelle costruende città del Terzo Reich. A poca distanza dalle cave passava la linea ferroviaria che avrebbe reso il trasporto semplice e conveniente. La linea proseguiva oltre diramandosi in tutta la Polonia conquistata e raggiungendo ghetti e altri campi dove era possibile approvvigionarsi illimitatamente di manodopera. In breve tempo, tuttavia, l’estrazione del granito divenne un’attività non più prioritaria e i detenuti di Gross Rosen furono destinati ai vicini impianti produttivi delle aziende coinvolte nella produzione bellica come la IG Farben, la Krupp e la Daimler Benz.
La visita prosegue in quella che è poco più di una spianata. Attraversiamo l’edificio simbolo del memoriale, il portale con al centro il varco di ingresso sormontato dalla torretta di guardia. La sua architettura è simile a quella che abbiamo visto a Birkenau, Buchenvald, Sachsenhausen e in altri campi. Furono tutti costruiti in breve tempo e ciascuno seguendo il modello del suo predecessore adattandolo alla specificità del contesto. Anche qui compare la scritta Arbeit macht frei…
Il percorso all’interno del memoriale è libero con il solo limite “naturale” della recinzione di filo spinato. Ci ricordiamo della recente visita all’ex campo di concentramento e di lavoro di Natzweiler-Struthof in Francia dove l’entrata richiede l’acquisto di un biglietto. La cosa ci fece infuriare non poco, prima con la cassiera e poi con lo strappino. Per la verità, la cassiera si scusò e ci chiese gentilmente da dove venivamo. Noi rispondemmo altezzosi che venivamo da dove i memoriali della Shoah sono gratuiti; lei tacque. Oltre al laconico commercio della memoria, la visita avvenne tra una moltitudine di scolaresche con gli alunni annoiati almeno quanto i loro professori perché anch’essi, in qualche modo, erano stati deportati nel campo. A Gross Rosen, invece, c’è silenzio e si può riflettere e osservare ogni dettaglio con calma e meticolosità anche se il caldo rende tutto molto complicato…
L’elenco dei paesi di origine delle persone internate a Gross Rosen è straordinario. Tra le altre, provenivano da Polonia, Ungheria, Francia, Belgio, Jugoslavia, Slovacchia, Grecia, Germania, Russia e Italia. Una moltitudine incongruente che si complicava via via che venivano conquistati nuovi territori con nuovi ebrei, dissidenti e partigiani. I gruppi nazionali più numerosi erano raccolti nella stessa baracca così come accadde per gli italiani.
I deportati erano per lo più ebrei, ma vi fu anche un consistente gruppo di Nacht und Nebel (Notte e Nebbia), i prigionieri politici in attesa dell’esecuzione della condanna a morte. Tra i campi di concentramento, Gross Rosen ebbe il primato della più alta quota rosa di internati arrivando a ospitare 26.000 donne.
Guardando attraverso le malconce assi di una porta di servizio, scopriamo un curioso magazzino di rotoli di filo spinato che spiega come mai quello che avvolge il campo, sia in stato così ottimale. Anche le uniche due baracche presenti sono il frutto di una ricostruzione e lo è anche il palo delle impiccagioni e probabilmente anche il forno crematorio portato qui da chissà dove. La realtà, comunque, è nell’aria e si vede semplicemente respirando.
Usciti dal portale, risaliamo la collina a nord e andiamo poco oltre lungo un percorso accidentato e irregimentato dal filo spinato. Raggiungiamo la cava di granito dove trovarono impiego i deportati della prima ora. La coppia di ebrei rinuncia da subito all’impresa. Li vediamo tentennare, ma poi scelgono sostare nel varco del portale. A dire il vero, lassù non c’è niente da vedere. La cava è come tutte le altre cave ed è abbandonata e per questa ragione si è naturalmente allagata.
L’azione salvifica dell’industriale tedesco di origine austro-ungherese Oskar Schindler risparmiò la vita a 1.100 detenuti in uno dei sotto campi di Gross Rosen (Bruennlitz). Si tratta di una storia nella storia che offre alla narrazione di quanto qui accadde l’occasione di mostrare il ruolo dei giusti divenuti Giusti tra le Nazioni.
Tra il 1940 e il 1945, dei circa 120.000 prigionieri che furono condotti a Gross Rosen e nei suoi campi satellite ne morirono 40.000. Si moriva di stenti, di fame, di fatica, di tortura, di impiccagione, di fucilazione e di epidemie che venivano estirpate anche con l’eliminazione di chiunque fosse in odore di contagio.
Con molta probabilità, un volta informati sulla destinazione, i deportati tiravano un sospiro di sollievo. “Le rose grandi“. Come poteva, infatti, “le rose grandi” essere qualcosa di terribile? Si poteva pensare, almeno così avrei fatto io, che nel male si era finiti bene e in qualche modo, era così. Altri tempi, altri parametri.
Ripartiamo insieme agli altri due visitatori e finalmente ci salutiamo, noi con rispetto e un po’ commossi, loro ugualmente con rispetto e un po’ commossi.
Ho visto solo la Risiera di San Saba a Trieste. Ne sono uscito sconvolto. Non capiro mai come gli uomini possano commettere atrocità simili contro altri uomini. Mi convinco sempre di più che dovremmo imparare dagli animali. Loro vivono in branco, rispettano quello che ritengono il loro capo e non si odiano. E sono convinto anche che le religioni, tutte, nessuna esclusa, servano solo a fomentare l’odio e non a condurre alla pace.
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sottoscrivo e ti ringrazio molto del commento!
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